mercoledì, ottobre 10, 2007

Reckoner


Ieri, in procinto di prestare un libro ad una persona, ho pensato all'amarezza che si prova quando si conclude un libro che in qualche modo ci ha appassionato (ricordo come se fosse oggi l'ultima pagina di Anna Karenina) e ho espresso in cuor mio il desiderio di poter cancellare ogni ricordo legato ad esso per poterlo rileggere con la stessa sorpresa con cui lo feci la prima volta. Mi è capitato spesso di rileggere dei libri e ogni volta l'impressione era diversa, come se mi stesse raccontando una storia uguale e diversa, ma la magia della prima lettura ahimè era perduta. Mi è capitato anche di pentirmi di non aver letto al momento giusto dei libri (ho letto il giovane Holden troppo tardi ad esempio). Ma esiste un tempo giusto per i libri? Beh sì. Ho provato a rileggere Sartre e di certo non mi fa più l'effetto di una volta. Ma la sorpresa della prima lettura si perde nel tempo. E nessun altro come Bergson poteva spiegarmi il perchè.


Io constato anzitutto che passo di stato in stato. Ho caldo ed ho freddo, sono lieto o triste, lavoro o non faccio nulla, guardo ciò che mi circonda o penso ad altro. Sensazioni, sentimenti, volizioni, rappresentazioni: ecco le modificazioni tra cui si divide la mia esistenza e che di volta in volta la colorano di sé. Io cambio, dunque, incessantemente. Ma non basta dir questo: il cambiamento è più radicale di quanto non sembri a prima vista. Di ciascuno dei miei stati psichici parlo, infatti, come se esso costituisse un blocco: dico sì che cambio, ma concepisco il cambiamento come un passaggio da uno stato al successivo e amo credere che ogni stato, considerato per se stesso, rimanga immutato per tutto il tempo durante il quale si produce. Eppure, un piccolo sforzo di attenzione basterebbe a rivelarmi che non c'è affezione, rappresentazione o volizione che non si modifichi di continuo: se uno stato di coscienza cessasse di cambiare, la sua durata cesserebbe di fluire. Il mio stato d'animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un Io che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti identico a se stesso finchè non venga sostituito dallo stato successivo. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che, progredendo, si accresce. E poichè si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente. La memoria non è la facoltà di classificar ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. Non c'è registro, non c'è cassetto; anzi, a rigor di termini, non si può parlare di essa come di una "facoltà": giacchè una facoltà funziona in modo intermittente, quando vuole o quando può, mentre l'accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà, il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt'intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori. La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell'incosciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l'azione che si prepara, compiere un lavoro utile. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell'inconscio ci avvertono del carico che trasciniamo dietro a noi senza averne consapevolezza. Ma, se anche non ne avessimo chiara coscienza, sentiremmo vagamente che il passato è sempre presente in noi. Che cosa siamo, infatti, che cos'è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, prima anzi di essa, poiché portiamo con noi disposizioni prenatali? Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato; ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il nostro passato, comprese le nostre tendenze congenite. Il nostro passato ci si rivela, dunque, nella sua interezza, con la pressione che esercita su di noi e sotto forma di tendenza, benchè solo uan piccola parte di esso si converta in rappresentazione chiara e distinta.

Conseguenza diquesta sopravvivenza del passato è l'impossibilità, per una coscienza, di passare due volte per l'identico stato. Le circostanze possono ben rimanere le stesse: la persona su cui agiscono non è più la stessa, perchè la colgono in un momento nuovo della sua storia. La nostra personalità, che va via via formandosi mediante il progressivo accumularsi del'esperienza, muta continuamente;e però nessuno stato di coscienza, anceh se resta ientico alla superficie, si ripete mai in profondità. Questo è perchè la nostra durata è irreversibile: per poter rivivere anche un momento solo bisognerebbe annullare il ricordo di tutti i momenti successivi.

Henri Bergson, L'evoluzione creatrice

3 commenti:

Kùrt ha detto...

Io soffro della sindrome da fine libro, anche, e sopra tutto, con libri come manoscritto trovato a saragoza: arrivo voracemente alle ultime pagine e poi comincio a centellinarle, ma purtroppo finiscono sempre, commistione di dolce appagamento e distacco traumatico, l'autore o i familiari, quando defunto, dovrebbero inviarmi sempre nuove pagine, conclusive ma per iniziare ancora...e ancora...e poi ancora...concordo, reckoner è notevole, per ora mi piace molto anche All I Need

Anonimo ha detto...

reckoner è il mio pilota preferito, domenica scorsa ho gioito al suo trionfo al GP del giappone!

Stefano ha detto...

Henri Bergson, L'evoluzione creatrice.

Grande!